BarKessa nasce dalla passione e dall’amicizia di Gigi e Gian che hanno condiviso, nel corso degli anni, esperienze lavorative e di vita.
Nella BarKessa Gigi e Gian ti accompagneranno alla scoperta dei profumi e dei sapori, della storia, delle tradizioni e dei costumi di terre raffinate ed eccelse. Ti consiglieranno prodotti di alta qualità, luoghi incantevoli, come paesaggi suggestivi, ristoranti tipici o meravigliose strutture in cui pernottare, il tutto con la garanzia di poter scoprire ed assaporare la qualità della vita della provincia Italiana.
Il baccalà alla vicentina è la ricetta simbolo della città di Vicenza. Un piatto conosciuto e apprezzato in tutto il mondo, grazie alla sua semplicità e al suo inconfondibile sapore. Ma come e quando è nato il modo di cucinare il baccalà nella maniera più conosciuta al mondo?
E’ noto che il baccalà lotta con Palladio per conquistare il trono di simbolo della città di Vicenza nel mondo. A Rost, una delle più sperdute fra le isole Lofoten al largo della Norvegia, più di quattro secoli fa, naufragò la spedizione agli ordini dl capitano veneziano Pietro Querini e lì, per un singolare effetto a lungo termine di quello sbarco avventuroso, oggi hanno Vicenza nel cuore. Il merito è degli stoccafissi che capitan Querini portò con sé rientrando a casa e che a illuminati gastronomi vicentini ispirarono, previo opportuno trattamento, la nascita del piatto chiamato Baccalà, raccomandabile con polenta.
I vicentini videro nello stoccafisso una alternativa al costoso pesce fresco, oltretutto facilmente deperibile. Nell’ottobre del 1580, all’aprirsi dell’era palladiana, arriva a Vicenza Michel de Montaigne; Vicenza gli appare come una “grande città piena di palazzi gentilizi”, ma niente di più. Nel suo celebre “Journal de Voyage eh Italie” lascia un mediocre appunto su Vicenza, ma il suo entusiasmo letterario riprende fuoco solo per un pranzo in cui era incluso il famoso “piatto nazionale” dei vicentini: il Baccalà.
E’ corretto fare una distinzione: i vicentini chiamano lo stoccafisso con il nome di Bacalà (con una c solamente), perché a Vicenza quando si parla di Baccalà (con due c) ci si riferisce a quello salato no a quello secco. Pertanto lavorando e parlando del pesce secco, i vicentini lo chiamano Bacalà, altrimenti per baccalà si intenderebbe il pesce fresco e salato. Perciò ricordate: per i vicentini si usa dire ” Bacalà alla vicentina”.
LA RICETTA
Ingredienti per 12 persone:
1 kg di stoccafisso secco
250/300 g di cipolle
1/2 l di olio extravergine di oliva
3 sarde sotto sale
1/2 l di latte fresco
poca farina bianca
50 g di formaggio grana grattugiato
un ciuffo di prezzemolo tritato
sale
pepe
Ammollare lo stoccafisso, già ben battuto, in acqua fredda, cambiandola ogni 4 ore per 2-3 giorni. Aprire il pesce per lungo, togliere la lisca e tutte le spine. Tagliarlo a pezzi. Affettare finemente le cipolle; rosolarle in tegamino con un bicchiere d’olio, aggiungere le sarde sotto sale tagliate a pezzetti; per ultimo, a fuoco spento, unite il prezzemolo tritato.
Infarinare i vari pezzi di stoccafisso, irrorati con il soffritto preparato, poi disporli uno accanto all’altro, in un tegame di cotto o alluminio oppure in una pirofila (sul cui fondo si sarà versata qualche cucchiaiata di soffritto); ricoprire il pesce con il resto del soffritto, aggiungendo anche il latte, il grana grattugiato, il sale, il pepe.
Unire l’olio fino a ricoprire tutti i pezzi, livellandoli.
Cuocere a fuoco molto dolce per circa 4 ore e mezzo, muovendo ogni tanto il recipiente in senso rotatorio, senza mai mescolare.
Questa fase di cottura, in termine “vicentino” si chiama “pipare”.
Solamente l’esperienza saprà definire l’esatta cottura dello stoccafisso che, da esemplare ad esemplare, può differire di consistenza.
Il bacalà alla vicentina è ottimo anche dopo un riposo di 12/24 ore. Servire con polenta.
A fine settembre, mia moglie ed io, sfruttando una bellissima giornata di sole autunnale, abbiamo deciso di andare a Cervia per una passeggiata sul lungo mare. Eravamo pronti a qualche temerario che faceva il bagno o a qualcuno che prendeva l’ultimo sole ma, di certo, non ci aspettavamo di imbatterci in un fiume di nasi rossi e camici colorati. Abbiamo seguito questi stravaganti personaggi nelle loro attività per qualche ora, increduli e un po’ stupiti nel vederli così spensierati a giocare, cantare e ballare.
Missionari di gioia, ecco che cosa sono. Abbiamo avuto modo di chiacchierare con qualcuno di loro e ci è stato raccontato un mondo che profuma di fiaba, anche se è assoluta verità: loro sono clown VIP (Viviamo In Positivo), federazione nazionale nata nel 2003 che mobilita ben 59 associazioni con più di 4400 volontari sparsi per l’Italia. “Chi siete?” è stata una delle mie prime domande. “Noi siamo clown di corsia” mi ha risposto dolcemente una ragazza con due codine e un cerchietto pieno di fiori “le nostre finalità principali sono: promuovere attività di volontariato in tutti quei luoghi in cui sia presente uno stato di disagio fisico o psichico; fornire e garantire una Formazione costante a noi volontari clown che prestiamo regolarmente servizio nelle oltre 200 strutture ospedaliere e sanitarie in tutta Italia; promuovere il volontariato Clown in ogni situazione di disagio fisico o sociale, non solo in Italia, ma anche nel Terzo Mondo attraverso le nostre missioni e sensibilizzare al Vivere in Positivo attraverso eventi, pubblicazioni e testimonianze.” Avevano gli occhi pieni di gioia e sembrava si conoscessero tutti da anni, erano al loro raduno nazionale, evento di crescita, condivisione e formazione. Qualcuno di loro suonava la chitarra sulla spiaggia, un altro paio li accompagnavano con dei tamburelli, mentre qualche altro faceva della giocoleria. Avevano pantaloni colorati, un po’ di trucco in faccia e delle meravigliose magliette capaci di far nascere un sorriso; ne ricordo alcune specialmente per le loro scritte: “qui sotto batte un cuore clown”; oppure “possa ogni tuo giorno traboccare di felicità” o ancora, “non è mai finita se sorridi alla vita”, “regalo abbracci”, “un sorriso colora la vita”… mia moglie ed io siamo stati clowntagiati dalla loro allegria.
Li salutammo e continuammo a camminare con la mente un po’ più leggera e il cuore sorridente. A volte basta poco per fare la differenza.
Vi lascio il link al loro sito ufficiale se siete curiosi di saperne un po’ di più: www.clownterapia-italia.it
L’apprezzamento di un vino si esprime anche attraverso un corretto uso dei bicchieri, un insostituibile elemento che, unito a tutti gli altri, riesce a fare esprimere le qualità del vino.
Il bicchiere è quel prezioso contenitore di vetro o cristallo che consente di apprezzare e valutare tutti gli aspetti organolettici di un vino, dal suo aspetto ai suoi aromi, oltre ad esaltare nel giusto modo il suo sapore. Ogni vino ha caratteristiche diverse da qualunque altro e ognuno, per potere esprimere il meglio di sé, ha bisogno sia di condizioni di servizio adeguate, come la temperatura, così come di adeguati bicchieri aventi forme e caratteristiche specifiche per la valorizzazione di specifici aspetti.
Le forme del bere infatti spaziano a seconda della tipologia del vino. Oltre che per il colore del vino, bianco, rosso o rosato, i bicchieri variano anche per la struttura del vino, per la presenza di tannini, per il loro grado di invecchiamento, per la tipologia, per i profumi che sprigionano. Occorre sempre ricordare che ognuno è libero di utilizzare il bicchiere che preferisce, cercando magari, a fronte di un acquisto, di scegliere un tipo di bicchiere che si adatta a diversi tipi di vino, così da ottimizzare la spesa. La materia, il colore e la forma di un bicchiere influiscono non poco nella degustazione di un vino; ovviamente il materiale migliore è il cristallo, ma anche il vetro sonoro detto “cristallino” (che non contiene piombo) o un buon vetro trasparente andranno benissimo. In ogni caso, curate che il bicchiere sia assolutamente pulito e inodore.
Sono questi i requisiti essenziali che deve avere un bicchiere per poter valorizzare al meglio il suo contenuto e consentirne l’apprezzamento dei colori, della limpidezza, con la possibilità di impugnarlo senza che nè il calore e nè l’odore della mano interferiscano con il contenuto.
La forma del bicchiere inoltre dipende dal tipo di vino che si va a bere; la forma a calice è nettamente preferibile, perché consente di allontanare la mano dal calice, evitando così di alterare la temperatura di servizio. Un bicchiere da vino che si rispetti deve avere pareti molto sottili non colorate, possibilmente prive di montature e sfaccettature, uno stelo abbastanza lungo di modo che la mano rimanga lontana dal calice; ed infine il calice stesso deve essere più largo nella parte inferiore di modo che l’aroma risalga più agilmente verso l’alto. Altrettanto importante è la capienza che deve essere sufficiente a contenere una giusta quantità di vino, pur senza essere colmato e, allo stesso tempo, consentire lo sprigionarsi dei profumi. I calici grandi e panciuti, oltre a facilitare il movimento di roteazione del bicchiere per ossigenare il vino, consentono di cogliere al meglio il bouquet nei grandi vini rossi. Ai vini liquorosi invece si adattano bicchieri piccoli che si restringono verso l’alto per conservare meglio gli aromi. Ricordate infine che il calice non va mai riempito oltre la metà della propria portata: in questo modo aumenta la superficie del vino a contatto con l’aria, consentendo così una migliore ossigenazione e un più ampio sviluppo degli aromi. Fanno eccezione i bicchieri per spumante (coppa o flûte) che riempirete fino ai due terzi, ed i grandi ballons per rossi importanti nei quali ci si limita ad un terzo.
FLUTE
Bianchi: prosecchi, spumanti, frizzanti, champagne, secchi e semisecchi
TULIPANO
Bianchi: vini giovani e leggeri
RENATO
Bianchi: vini strutturati e grandi spumanti
BALLON
Rossi: vini di medio corpo
BORGOGNA
Rossi: vini corposi e strutturati, di invecchiamento medio
GRAND BALLON
Rossi: vini molto strutturati e molto invecchiati
COPPA
Da Dessert: spumanti dolci e aromatici
TULIPANO PICCOLO
Da Dessert: passiti e vini dolci
SAUTERN
Da Dessert: vini da meditazione, dolci, muffati
Ora che anche voi conoscete il mio piccolo segreto per servire il vino non posso che augurarvi una buona degustazione.
Avevo promesso a quattro dei miei nipoti di fare una gita con loro. Credevo difficile scegliere una destinazione che affascinasse dei quindicenni e le loro proposte non mi entusiasmavano: Gardaland, partita di calcio di serie A, concerto di musica live…
Volevo qualcosa di diverso che legasse quel giorno a un ricordo singolare, da rievocare con un sorriso sulle labbra, per questo ho scelto il MUSE.
E’ stata un’esperienza unica e indimenticabile, che consiglio a tutti, perché non è solo un museo ma un centro di riflessione sul rapporto tra natura e uomo.
Il Muse si trova a Trento ed è stato disegnato da Renzo Piano. Nel nuovo Museo delle scienze il pubblico è il vero protagonista della visita, grazie alla sperimentazione in prima persona, ai giochi interattivi e agli ambienti immersivi e per questo è riuscito a coinvolgere me tanto quanto dei quindicenni.
Attraverso strumenti di apprendimento informale – studiati per tutte le età e diversi livelli di approfondimento – il Muse ci ha raccontato le meraviglie dell’ambiente alpino e della natura che ci circonda, toccando al contempo temi di interesse planetario, come lo sviluppo sostenibile e la conservazione della natura e lanciando uno sguardo verso il futuro.
Il percorso espositivo del Museo usa la metafora della montagna per raccontare la vita sulla Terra. Abbiamo iniziato dalla cima: terrazza e quarto piano ci hanno fatto incontrare sole e ghiaccio, per poi scendere ad approfondire le tematiche delle biodiversità, della sostenibilità, dell’evoluzione, fino al piano interrato e alla meraviglia della serra tropicale.
4° Piano: Alte Vette
Far conoscere gli elementi geologici e biologici dell’ambiente alpino è l’obiettivo degli spazi espositivi “più alti” del Museo, che ci hanno accompagnato sulle vette conquistandole, con sensazioni vive che prima avevo potuto assaporare solo in quota. Tra rumori e impressioni del paesaggio vivo e in evoluzione, siamo passati dal planare mozzafiato sulle cime alpine e dolomitiche, sui ghiacciai e le foreste, alle discese in picchiata lungo le pareti più estreme, fino a costeggiare l’imponente e terribile esperienza delle valanghe.
3° Piano: La vita nelle Alpi e la sua unicità
La galleria “Nel labirinto della biodiversità alpina” propone una discesa immaginata lungo un sentiero di montagna in cui si susseguono, fondendosi e creando interconnessioni reciproche, 26 ambienti diversi, arricchiti da 2 acquari.
La suggestione dell’allestimento mira a far rivivere le emozioni provate in natura, come incontrare animali selvatici, ascoltare i loro richiami, essere testimoni di un atto di predazione o spiare i rituali di corteggiamento. Ogni ambiente è svelato in modo intuitivo e suggestivo, utilizzando modalità comunicative che vanno dai più tradizionali animali tassidermizzati (“congelati” in posture plastiche) alle tecnologiche superfici virtuali interattive.
2° Piano: Geologia, miniere e rischio ambientale
Le Alpi, in particolare le Dolomiti, rappresentano un unicum nel mondo per le loro caratteristiche geopaleontologiche e il loro paesaggio. Il percorso espositivo ci ha introdotto alla conoscenza dell’evoluzione delle Alpi attraverso un viaggio ricco di multimedialità, corredato da una rigorosa scelta di oggetti della geologia (rocce, fossili, minerali).
È un invito a scoprire, divertendosi, l’evoluzione degli ambienti geologici del passato: antiche montagne, vulcani, deserti, mari tropicali, scogliere coralline e profondità oceaniche. L’esposizione ci ha permesso di addentrarci nei processi geodinamici che hanno portato gli antichi fondali a innalzarsi sopra il livello del mare e, ripiegandosi e fratturandosi, a formare le Alpi.
1° Piano: Dai primi uomini sulle Alpi al futuro globale
Ci siamo imbattuti in una struttura a spirale meravigliosa che introduce ed invita ad entrare nel mondo della preistoria. I principali ritrovamenti locali custoditi al Museo delle Scienze sono esposti in vetrine che illustrano le principali fasi dell’evoluzione culturale, economica e sociale nella preistoria delle Alpi: la presenza dell’uomo di Neanderthal sui massicci alpini meridionali durante le fasi più calde dell’ultimo periodo glaciale nel Paleolitico medio, l’arrivo di Homo sapiens al termine delle grandi glaciazioni nel Paleolitico superiore e la sua diffusione all’interno delle vallate alpine nel Mesolitico, l’introduzione di agricoltura e allevamento nel Neolitico e la grande innovazione tecnologica della lavorazione dei metalli nella protostoria.
Apparati multimediali forniscono approfondimenti tematici suggeriti dai reperti esposti e riproduzioni di figure umane intente in attività quotidiane arricchiscono il percorso espositivo, che ci ha introdotto in uno spazio immersivo ove dei video favoriscono la suggestione e l’emozione di vivere in tempi preistorici. Due acquari ospitano specie di lago in contesti archeologici: un sito di alta montagna nel primo, un ambiente palafitticolo nell’altro.
Piano Terra: La scoperta inizia dai sensi
Uno spazio per bambini.
Bambini da 0 a 5 anni aperti a scoprire, capire, osservare, provare. Partendo da quello che loro sanno fare così bene: toccare, annusare, guardare e vedere, sentire. E’ un posto che permette di sperimentare i sensi attraverso i sensi, mettendo a disposizione occasioni ogni volta diverse e originali. Anche noi ci siamo divertiti ad interagire, tornando un po’ bambini, perché il Muse è assolutamente accattivante e la sua parte interattiva è veramente stimolante.
Piano interrato: Storia della vita
L’affascinate storia della vita: un complesso evolvere di forme regolato da drammatici cambiamenti ambientali, geografie mutanti e occasioni fortuite. A caccia di ricordi seguendo il filo dell’evoluzione dell’uomo, in un passato vecchio 5 miliardi di anni.
In questa galleria i resti fossili ci accompagnano in un incredibile viaggio nel tempo profondo, dalla comparsa delle prime molecole all’evoluzione di dinosauri e mammiferi.
A raccontare il capitolo della lunga storia evolutiva sono piccole piante senza foglie né fiori, insetti privi di ali e tozzi anfibi. Incontrare e imparare a conoscere le loro forme porta il visitatore a ripercorrere i primi passi di una nuova era, quella di una Terra che si va popolando.
La parte dedicata ai rettili terrestri custodisce uno dei più grandi archivi a livello europeo di orme fossili di rettili paleozoici, mesozoici e di dinosauri. Sulle tracce dei grandi rettili si possono riconoscere le loro caratteristiche orme e ammirare gli imponenti scheletri a grandezza naturale. Con i rettili marini ci si immerge nelle acque del Triassico. Notosauri, plesiosauri, ittiosauri: i mari si riempiono di piccoli e grandi rettili dalle abitudini alimentari e dai modi di vita sorprendenti.
Dinosauri e rettili marini ci hanno accompagnato fino all’estinzione di massa del Cretaceo-Terziario: un evento catastrofico per la storia della vita. Con l’estinzione dei dinosauri si apre il capitolo sulla storia evolutiva dei mammiferi: la rapida diversificazione di questo gruppo è narrata da esemplari fossili e attuali che illustrano l’evoluzione delle differenti strategie riproduttive, alimentari e locomotorie.
La galleria del DNA offre un’esperienza suggestiva mediata da un racconto empatico sull’aspetto unificante del DNA nei confronti di tutte le forme di vita – compresa la nostra.
La prima esperienza visiva è “l’Albero della vita”: una proiezione dinamica e lunga nove metri, che rivela l’incessante snodarsi dei tracciati evolutivi e le connessioni esistenti tra specie più o meno simili.
L’unicità del DNA, i suoi meccanismi di funzionamento e i processi evolutivi sono al centro di tre installazioni audiovisive multimediali dal titolo “Da dove veniamo?”, “Che cosa siamo?” e “Dove andiamo?”. Le storie sono arricchite da oggetti e reperti “speciali” perché diversi da quelli che avevamo incontrato fino ad ora nel museo. Quanto DNA condividiamo con gli altri organismi? Cosa hanno in comune una conchiglia e il cuore umano? Queste e molte altre domande trovano una risposta nella galleria del DNA.
La serra tropicale: Udzungwa, una foresta pluviale Afromontana
Prima di entrare nella serra, ci siamo imbattuti in una serie di grandi acquari. I pesci che vi sono ospitati sono rappresentativi della biodiversità ittica dei grandi laghi e fiumi della Tanzania.
Con una superficie di 600 metri quadrati la serra tropicale ricrea un lembo della foresta pluviale dei Monti Udzungwa, un centro di diversità ed endemismo dell’Africa Tropicale Orientale in Tanzania. Varcando la soglia della serra siamo stati accolti dall’abbraccio caldo e umido dei tropici, addentrandosi nelle foreste incontaminate dell’Africa tropicale, tra cascate e pareti verticali, tra acque turbinose e una rigogliosa foresta. L’itinerario parte dalla valle del Kilombero per proseguire nella foresta umida submontana, incontrando una caleidoscopica diversità di forme e colori appartenenti a piante e animali unici.
Il MUSE un luogo unico, che fa sognare; in grado di unire divertimento e comprensione, scoperta e gioco, grandi e piccini, nel nome della conoscenza. E’ talmente riuscito che, unico museo italiano, si è meritato una menzione d’onore all’European Museum of the Year Awards 2015.
Io vi consiglio di visitarlo.
Ah, dimenticavo! I miei nipoti ne sono rimasti entusiasti.
Evvai zio Gigi
MUSE – Museo Delle Scienze, Corso del Lavoro e della Scienza, 3 – 38122 Trento
Le gite scolastiche, quale migliore occasione di trasgredire, qualsiasi destinazione andava bene pur di fare una gita. Ma quell’anno fu una gita particolare, un giorno particolare che ancora oggi ha uno spazio nel mio cuore.
Possagno è la patria del più grande scultore neoclassico Antonio Canova (Possagno, 1 Novembre 1757 – Venezia 13 ottobre 1822). Il suo corpo è conservato a Possagno nel Tempio Canoviano. Scultore eccelso destinato al mondo che ha lasciato la sua grande eredità d’arte nella sua Casa Natale e, accanto, nella solenne Gipsoteca realizzata nel 1836, che raccoglie pressoché tutti i modelli originali delle sue sculture, i bozzetti in terracotta, i disegni, i dipinti.
Il Tempio Canoviano è la chiesa parrocchiale di Possagno, consacrata alla Santissima Trinità. Il Tempio è una costruzione neoclassica progettata da Antonio Canova e disegnata da Pietro Bosio e Giovanni Zardo con la collaborazione dell’architetto Gian Antonio Selva e Luigi Rossini. La costruzione fu cominciata l’11 luglio 1819 e il Tempio fu inaugurato nel 1830. Il tempio si trova ai piedi del Col Draga a 342 metri sul livello del mare, è una grandiosa costruzione neoclassica. Poggia su tre ampie gradinate e su un vasto acciottolato dalle artistiche forme geometriche progettato dall’architetto Giuseppe Segusini.
Nel Tempio si possono distinguere tre elementi architettonici: il colonnato, che richiama il Partenone di Atene; il corpo centrale simile al Pantheon romano; l’abside dell’altare maggiore.
Le tre parti rappresentano simbolicamente le tre fasi essenziali della storia: la civiltà greca, la cultura romana ed infine la grandezza cristiana
La spesa del Tempio venne sostenuta quasi per intero dallo scultore; ai lavori partecipò praticamente tutta la comunità di Possagno (che fornì anche alcuni materiali e lavoro volontario) e lavoranti del circondario.
Il Canova morì il 13 ottobre 1822, quindi a lavori appena iniziati, ma nel suo testamento affidò al fratellastro mons. G. Battista Sartodi il compito di portare a termine l’impresa, cui teneva in modo precipuo. Il 7 maggio 1832 il Tempio, chiesa parrocchiale di Possagno, è solennemente consacrato alla Trinità.
Possagno rappresenta il luogo dell’incontro con la cultura del Canova. E’ uno scrigno che contiene il passato ed il futuro, la tradizione e l’innovazione. Per questo il Museo e Gipsoteca Antonio Canova apre le sue porte al pubblico, proponendosi come un “complesso canoviano” costituito da musei, da una biblioteca e da un archivio, con spazi destinati agli studiosi ed al pubblico. In questi sacri luoghi vengono realizzate molte iniziative per renderlo un luogo innovativo, vivo e in grado di educare e di trasmettere la cultura.
Le opere di Canova si contraddistinguono per l’eleganza delle forme, per la bellezza e la semplicità delle sue figure. L’artista veneto infatti abbandona i drappeggi eccessivi e lo sfarzo delle opere barocche, spoglia la figura umana di tutti gli orpelli per
restituirla in
tutta la sua purezza al fine di ricavarne la sua essenza nel candore del marmo. Grande ammiratore dell’arte e del mondo ellenico, Canova era un appassionato cultore della mitologia greca. Quando era al lavoro infatti, nel suo studio c’era sempre qualcuno che aveva il compito di leggere storie tratte dai classici del mondo greco. Antonio Canova si è dedicato anche alla pittura, arte che coltivava come piacere personale, evitando di rendere pubbliche le sue creazioni.
Il Museo di Antonio Canova è proprio l’immagine totale della sua arte e della sua vita. Qui è conservata la sua memora per volere del fratello Giovanni Battista Sartori. Oggi questa realtà costituisce un riferimento imprescindibile per tutti i musei del mondo che custodiscono gelosamente i capolavori in marmo espressione della sua genialità.
Ma chi era Antonio Canova
Antonio Canova nacque a Possagno (Treviso), a circa 80 km da Venezia, il primo novembre 1757: a soli quattro anni rimase orfano del padre, Pietro; la madre, Angela Zardo, si risposò poco dopo con Francesco Sartori e si trasferì nel vicino paese di Crespano, ma Antonio rimase a Possagno, con il nonno Pasino Canova, tagliapietre e scultore locale di discreta fama. Questi eventi segnarono la sensibilità di Antonio Canova per tutta la vita.
Fin da giovanissimo, egli dimostrò una naturale inclinazione alla scultura: eseguiva piccole opere con l’argilla di Possagno; si racconta che, all’età di sei o sette anni, durante una cena di nobili veneziani, in una villa di Asolo, abbia eseguito un leone di burro con tale bravura che tutti gli invitati ne rimasero meravigliati: il padrone di casa, il Senatore Giovanni Falier, intuì la capacità artistica di Antonio Canova e lo volle avviare allo studio e alla formazione professionale.
Nel 1768, Canova cominciò a lavorare nello studio della scultura dei Torretti, a Pagnano d’Asolo, poco distante da Possagno: quell’ambiente fu per il piccolo Antonio (che tutti chiamavo “Tonin”) una vera e propria scuola d’arte. Furono i Torretti ad introdurlo nel mondo veneziano, ricco di tanti fermenti culturali e artistici. A Venezia, Canova frequentò la scuola di nudo all’Accademia e studiò disegno traendo spunto dai calchi in gesso della Galleria di Filippo Farsetti.
Dopo aver lasciato lo studio dei Torretti, avviò una bottega in proprio: eseguì le prime opere che lo resero famoso a Venezia e nel Veneto: Orfeo e Euridice (1776), Dedalo e Icaro (1779).
Nel 1779, Canova compì il suo primo viaggio a Roma, dove produrrà le sue opere più belle (dalle Grazie ad Amore e Psiche, dai Monumenti funebri dei Papi Clemente XIII e XIV e a Maria Cristina d’Austria ai numerosi soggetti mitologici, come Venere e Marte, Perseo vincitore della Medusa, Ettore e Aiace) e lavorerà per sovrani, principi, papi ed imperatori di tutto il mondo. A Roma, era ospite dell’ambasciatore veneto, a Palazzo Venezia, Gerolamo Zulian che fu grande mecenate degli artisti veneti. Lo stesso Zulian procurò a Canova le prime commissioni a Roma e direttamente gli ordinò Teseo sul Minotauro (1781) e Psiche (1793).
Nel frattempo conobbe Domenica Volpato, figlia dell’incisore Giovanni, con la quale ebbe un’amicizia travagliata; la sua fama cresceva in Italia e all’estero: riceveva sempre nuove e impegnative commissioni da ogni parte d’Europa. Ben presto, la sua arte, organizzata secondo la tecnica degli antichi greci, dal disegno all’argilla, dal gesso al marmo, sviluppò un lavoro formidabile e una vicinanza sempre più forte ai temi della mitologia classica.
Quando i Francesi occuparono Roma, nel 1798, egli preferì abbandonare la città e ritornare a Possagno dove si dedicò alla pittura: in due anni, egli dipinse molte delle tele e quasi tutte le tempere che oggi sono custodite nella sua Casa natale di Possagno.
Nel 1800, tornò a Roma dove la situazione si era fatta meno disordinata: lo accompagnava il fratellastro Giovanni Battista Sartori che gli sarà fedele segretario per tutta la vita.
L’avvento di Napoleone sulla scena politica europea (1804, incoronazione ad imperatore) determinò un periodo fecondo della produzione artistica di Canova (dal Napoleone di Apsley House ai busti dei Napoleonici, dal marmo di Letizia Ramolino alla famosissima Paolina di villa Borghese) e contemporaneamente resiste alle lusinghe di diventare l’artista della Corte dell’imperatore francese; anzi, nel 1815, subito dopo la disfatta di Waterloo, Canova è a Parigi, con il fratellastro Giovanni Battista Sartori: grazie ad una abile azione diplomatica riesce a riportare in Italia numerose e preziose opere artistiche trafugate da Napoleone in Francia. Pio VII, per questa sua grande opere in difesa dell’arte italiana, gli conferì il titolo di Marchese d’Ischia, con un vitalizio di tremila scudi che egli volle elargire a sostegno delle accademie d’arte.
Nel luglio del 1819, Canova era a Possagno per porre la prima pietra del Tempio che volle progettare e donare alla sua comunità come chiesa parrocchiale: il maestoso edificio sarà completato solo dieci anni dopo la sua morte, avvenuta il 13 ottobre 1822, a Venezia, in casa dell’amico Francesconi. Il suo corpo, per volere del fratellastro, fu traslato prima nella vecchia parrocchiale e, dal 1832, nel Tempio.
Oggi, a Possagno, chi visita gli ambienti che furono di Antonio Canova, il Tinello, il Giardino, il Porticato, parlano ancora di lui, dei suoi “ozi” dediti alla pittura, delle feste semplici e rustiche che i compaesani gli dedicavano quando tornava da Roma o da Parigi o da Vienna e si immergeva nella pace della sua contrada e della sua Casa.
Poi con l’età dopo aver visitato vari musei, ci si innamora di un’opera e la si eleva nel proprio cuore alla massima espressione dell’artista tanto ammirato, in fin dei conti tutto è soggettivo.
Secondo me La Paolina Borghese esposta a Villa Borghese a Roma è un’opera strepitosa.
Commissionata dal principe romano Camillo Borghese, marito di Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, la scultura, raffigurando la donna nella posa dei ritratti classici romani e ispirandosi a Venere vincitrice, incarna alla perfezione il concetto neoclassico di grazia e bellezza come valori ideali derivati dal perfetto equilibrio tra arte e natura. Il pomo nella mano sinistra richiama la vicenda mitica per cui Venere, in una disputa di bellezza con Era e Atena, fu giudicata la migliore delle tre da Paride, vincendo dunque una mela d’oro con la scritta “alla più bella”. Il corpo della donna, seminudo e avvolto da un lieve drappeggio, è morbidamente appoggiato sul letto e sui cuscini, tutti ricavati dallo stesso blocco di marmo. Di qui l’unità dell’insieme, che sottolinea il movimento di torsione della figura suggerito dalle pieghe delle vesti e del lenzuolo, dalla posizione delle braccia e dal volto di profilo. La superficie levigata, secondo la tecnica della cera a fluido, conferisce al soggetto ritratto toni luminosi rosati, aggiungendo un tono realistico all’astrazione ideale della composizione.
“Ho letto che gli antichi una volta prodotto un suono erano soliti modularlo, alzando e abbassando il tono senza allontanarsi dalle regole dell’armonia. Così deve fare l’artista che lavora ad un nudo.”
(Antonio Canova)
Dove possiamo trovare esposte le opere del Canova? In tutta Europa dal museo Correr, Venezia; museo Civico, Padova; Victoria and Albert Museum, Londra; basilica dei Santi Apostoli, Roma; museo del Louvre, Parigi; musée d’Art et d’Histoire, Ginevra; Galleria Borghese, Roma; basilica di Santa Croce, Firenze; Staatliche Museen, Berlino; Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo; e molti altre città;
“ma…. nel Veneto ….. a Possagno (TV)”, c’è La Gipsoteca che è ospitata in un grande edificio a forma basilicale che raccoglie modelli in gesso (gipsoteca infatti significa letteralmente “raccolta dei gessi”), bozzetti in terracotta, marmi del celebre artista. Accanto alla gipsoteca, la casa natale dell’artista raccoglie la pinacoteca (oli su tela e tempere), alcuni disegni, le incisioni delle opere e numerosi cimeli.
Vi consiglio di partire da qui alla scoperta di Antonio Canova!
Riassettando la mia libreria mi è ricomparso tra le mani un libro: Riverisco di Mariano Castello, scrittore di Schio (VI). Il libro di Castello colpisce per la capacità di isolare un piccolo mondo, di guardarlo e farlo guardare con la lente d’ingrandimento; di fare emergere quelle che sembrano epocali differenze nella distanza che separa, di solo una cinquantina d’anni, una generazione dall’altra in un piccolo contesto di provincia.
Leggendo questo libro mi ritrovo in un modo che appartiene alla mia giovinezza, quelle espressioni, quelle situazioni di vita che lo scrittore descrive così minuziosamente, mi riportano nella casa di mia nonna. Chiudendo gli occhi mi sembra di riviverle.
Per questo motivo di seguito vi riporto un breve assaggio di questo libro nella speranza di farvi assaporare sensazioni piacevoli.
“Fino all’inizio degli anni sessanta, quando si salutava la maestra o il prete si diceva: “Riverisco”.
Al prete si poteva anche dire: Sia lodato Gesù Cristo” e il prete rispondeva: “Sempre sia lodato”.
Una volta ho incontrato per strada la maestra Comin e mia madre ha incominciato:” Cos’è che si dice alla signorina maestra qua?” Io stavo con la testa talmente bassa che quasi quasi toccavo terra: “Bongiorno” ho detto alla fine tra i denti. “No bongiorno, cos’è che si dice, riv.. riv… riv…” “risco” ho detto completando la parola.
“Dilla almeno tutta intera la parola, Signore”.
“Ben ben, va là” diceva la maestra che in quel momento voleva parere mite “va ben anche così.
Il toso è un po’ timido, ma si farà un doman. E magari a casa continua a ciacolare…”
“Cosa? E’ tutto un continuo: ciacolare e petufarsi con sua sorella, ma quando che è fuori sembra che abbia perso la lingua”.
“Fammi vedere se hai la lingueta” diceva bonaria la maestra. Allora io tiravo fuori una lingua talmente lunga che non si capiva se era solo per mostrarla o anche per far pitona.
La maestra restava per un attimo incerta e poi per tagliare l’aria diceva: “Visto che lunga che l’ha…”.
In questo libro lo scrittore usa un linguaggio che è un misto di italiano e dialetto, è però vicinissimo a quello che usiamo quotidianamente in famiglia e con gli amici, tanto che i racconti acquistano immediatamente vivezza e intensità. Il tono, sottilmente ironico e disincantato, ricorda quello di “Libera nos a Malo” di Luigi Meneghello, e le pagine scorrono veloci invogliando a continuare la lettura fino ad arrivare quasi con rammarico al finale.
Alcuni giorni fa, il primo aprile per l’esattezza, il principe Carlo d’Inghilterra ha raggiunto il meraviglioso monte Pasubio per omaggiare i caduti inglesi durante la guerra.
Era da un po’ che non ripensavo a queste zone, considerate capolavoro del Genio Militare italiano, oggi meta escursionistica per eccellenza. Tutti gli amanti delle belle passeggiate hanno sicuramente sentito nominare “la strada delle Gallerie” del Pasubio, testimonianza storica di altissimo valore: realizzata fra il marzo 1917 e il dicembre dello stesso anno allo scopo di consentire il transito di uomini al riparo dall’artiglieria austriaca.
Questa celebre escursione è senza ombra di dubbio tra le mie preferite perché, passeggiando nella storia, si intervallano gallerie ombrose a impressionanti scorci sulle sottostanti gole da cui emergono numerosi torrioni che hanno reso alpinisticamente celebre questo settore del Pasubio.
La mulattiera militare è composta da 52 gallerie, ognuna delle quali è numerata e caratterizzata da una propria denominazione. Vi segnalo tra le più caratteristiche la diciannovesima, dedicata a Re Vittorio Emanuele III: con i suoi 370 metri è la più lunga, scavata all’interno di un torrione roccioso è illuminata da numerosi finestroni che creano uno spettacolare effetto scenografico.
Adoro andarvi in estate, magari con gli amici, un panino e una buona bottiglia di vino nello zaino. Il percorso ha delle balconate panoramiche da togliere il fiato e fermarsi ad ammirare il paesaggio gustandosi qualcosa da mangiare è d’obbligo. Una volta raggiunta la cima la soddisfazione è molta, così come il silenzio e la pace. Dopo circa tre ore di cammino appare, come un’oasi nel deserto, Rifugio Papa: sorge imponente su quello che rimaneva di un ricovero in muratura, un locale semplice in cui riposare e mangiare godendo di una vista panoramica incantevole.
Da qui poi si può proseguire in direzione Pian delle Fugazze attraverso la Strada degli Eroi.. ma questa è un’altra storia.